Teatro Verdi di Trieste: la Madama Butterfly nella nuova produzione del Teatro Verdi con la nuova regia di Alberto Triola
In scena dal 12 al 20 Aprile 2019
Il sogno di origami di una “tenue farfalla”
Note di regia di Alberto Triola
Ci si dimentica troppo spesso di un dettaglio che dettaglio non è: la protagonista di Madama Butterfly è una ragazzina di quindici anni. È Puccini stesso a dircelo, con i suoi librettisti, in un passaggio del primo atto anche piuttosto insistito e pure ambiguo, in cui il tono giocoso porta a distogliere l’attenzione dal soggetto scabroso e moralmente assai riprovevole della situazione. Alcune interpretazioni teatrali hanno inteso sottolineare proprio il tema scottante del “turismo sessuale”, altre quello ancora più nero della pedofilia, allontanandosi però, a mio modo di vedere, da ciò che la musica di Puccini ci racconta.
Non contesto la legittimità di questo punto di vista, che il compositore stesso mette in campo – lui per primo! – con un certo gusto per la provocazione intellettuale; per questa nuova produzione triestina abbiamo però scelto di non mettere al centro i dilemmi della questione etica, quanto piuttosto la considerazione dell’identità anagrafica, oltre che culturale, della giovanissima protagonista.
Ciò che mi ha guidato con Libero Stelluti nei primi passi dell’ideazione dello spettacolo è il tentativo di collocare il centro emotivo di tutta la storia dentro la testa – anzi: il cuore, l’anima – di questa adolescente, e di provare a vedere il mondo, gli altri, l’amore e la maternità con i suoi occhi. Abbiamo provato a sentire come sente una ragazzina sensibile e romantica, con anima di artista, colpita dal destino e dalle ristrettezze di una improvvisa miseria familiare, costretta a crescere troppo in fretta, in anni in cui il mondo inizia da un lato a rimpicciolirsi e dall’altro ad aprirsi a viaggi e a scoperte, creando occasioni di incontro tra culture diverse.
L’opera di Puccini ci racconta un episodio di incontro (o per meglio dire di mancato incontro) tra la cultura giapponese e il mondo occidentale americano. In una città di porto come Nagasaki, in quello scorcio di secolo, erano sempre più numerosi gli occidentali che, appena sbarcati, si aggiravano a curiosare tra le botteghe, scattando foto ricordo con i locali; negli studi di posa era di moda ricreare paesaggi esotici per ritrarre coppie miste, vicendevolmente elettrizzate per l’esotismo dell’incontro (entrambi esotici allo sguardo dell’altro). Questi ritratti, con le giovani donne giapponesi felicemente impalmate dal fascinoso uomo occidentale di turno – spesso marinaio di professione – diventarono il soggetto ideale di molte storie illustrate, antenate del fotoromanzo rosa che ha alimentato la fantasia romantica delle generazioni della ricostruzione e del miracolo economico italiano.
Ecco, siamo partiti proprio da questo “sogno d’amore” di Cio Cio San: la romantica adolescente che passa le giornate a sfogliare riviste illustrate di foto e disegni, in cui le immagini idealizzate – le visioni, i “sogni” – venivano rappresentate all’interno di cerchi simili alle nostre nuvolette dei fumetti. Un modo come un altro per sfuggire alla miseria del quotidiano e rifugiarsi in un mondo ideale, nel classico castello con il principe azzurro, che ai suoi occhi non può che essere americano, “alto e forte”.
Nulla di più semplice e di più delicato, se non fosse che Puccini inizia proprio da qui per elaborare la materia dell’emozione con passo implacabile, affilando la lama della sua acutissima capacità di osservazione del cuore umano e di trattare tipi e archetipi, edificare micidiali ordigni di tortura psicologica e rendere inevitabile e quasi liberatoria la più classica delle catastrofi.
Ma questa tragedia è tanto più potente ed esplicita quanto più preciso e puntuale è il punto di partenza della parabola, quanto più fedele è il riferimento alla natura intima – autentica e originale – della protagonista: una ragazzina adolescente, sensibile e sognatrice, che cerca il riscatto da una vita desolante, senza poesia e senza magia, e che per farlo sceglie il più archetipico degli strumenti, l’amore, anzi il più grande e perfetto amore possibile, quello in cui anche lanterne di carta possono diventare, per una notte, stelle. Di carta anch’esse.
Davvero non riesco a dar credito a interpretazioni che vedono in Cio Cio San una donna di facili costumi, equivocando in modo grossolano e pretestuoso sul significato del termine geisha, che è prima di tutto un’artista di raffinata e delicatissima sensibilità.
Non è possibile immaginare cuore più puro – e corpo più immacolato! – di quello di Butterfly, e per raccontare degnamente la sua storia è necessario ritrovare e restituire l’essenza dei suoi teneri quindici anni.
Ho trovato molto stimolante, e risonante con la musica di Puccini, sviluppare il tema dell’immaginario di un’adolescente in cerca di riscatto – non solo certamente sociale. Un’anima sensibile ha soprattutto bisogno di vivere una vita di bellezza e di poesia, ed è naturalmente portata a ricercarle in ogni angolo dell’esistenza, in ogni sguardo, in ogni riflesso di natura. Cio Cio San non conosce il Male, il suo cuore puro non ne può contemplare l’esistenza. Si può leggere così la sua reazione alla brutale irruzione dello Zio Bonzo, che dentro quel sogno non può stare (e infatti la sua “apparizione” non può essere in scena) e che tenta di distruggerne l’essenza: la ragazzina viene risvegliata nel bel mezzo del suo sogno, e si ritrova sul banco degli imputati, in un processo sommario di cui non comprende le ragioni, perché non riesce neanche a concepire la colpa e il tradimento di cui viene accusata, con tutti i rischi che derivano per chi è disarmato di natura.
Materia perfetta per Puccini, che è inarrivabile nel ritagliare lo spazio ideale per lo sguardo indagatore e cinico della sua musica: la nostra immancabile commozione deriva non tanto da un sentimento di generica compassione, quanto piuttosto dalla esattezza con cui è ritratta la crudeltà del vivere, dalla puntualità chirurgica con cui è progettata, sviluppata e condotta la sua contemplazione, e che accumuna in un unico destino di sofferenza i personaggi “positivi” e quelli “negativi”. Un meccanismo psicologico, prima ancora che drammaturgico, così perfetto da togliere il fiato.
E così vediamo un Pinkerton sbruffone e superficiale, ovviamente, reso anche goffo dalla totale e disarmante inconsapevolezza, dalla sua conclamata immaturità emotiva. C’è un momento in cui arriva sul punto (quanto meno lo sfiora…) di suscitare compassione, ed è quando sembra emergere un barlume di luce “umana”, nel brindisi con Sharpless alla “famiglia lontana”. Improvvisamente ci troviamo di fronte un ragazzone che, in fondo, non ha ancora chiaro cosa sia il desiderio d’amore; la sua colpa – quella di non riuscire ancora a provarlo – ce lo rende per un istante degno di commiserazione, se non altro perché ci pare di avvertire la sorda, intima pena causata da un vuoto così vasto. Tutti hanno bisogno di amare e di essere amati, tanto più coloro che ne sembrano immuni. Sharpless resta col bicchiere levato a mezz’aria, fissa negli occhi il giovane, e sembra per un attimo impietosirsi per il freddo di quel cuore incapace di palpitare.
Fino a quel momento il Console si era presentato come la “voce della coscienza”: il suo è lo sguardo della consapevolezza e della responsabilità, per età e maturità, certo, ma probabilmente anche per una natura malinconica di suo. Puccini ne tratteggia l’umore con modulazioni che velano e increspano l’apparente spensieratezza dell’impaziente attesa della giovane geisha, come l’improvviso passaggio di una nuvola davanti al sole. Sharpless è a disagio sin da subito al cospetto di Pinkerton, e lo avvertiamo dalle frasi spezzate e tutto sommato interlocutorie con cui si presenta. Il disagio si acuisce con la scoperta dell’età della ragazza, per diventare poi vero e proprio tormento, soprattutto quando si fa evidente la sua incapacità di intervenire per evitare la catastrofe. Debolezza, ignavia o una sorta di nichilismo di fondo, poco importa: nel girone dei dannati alla pena del rimorso e degli “sconfitti del cuore” Sharpless ci finisce senza appello.
In fondo neanche Suzuki si salva. Pur essendo certamente l’anima più prossima a Cio Cio San, l’unica tra tutti (compresi madre e congiunti) che non la tradisce e che sceglie di condividere giorno dopo giorno i tre anni della rovina, neanche con lei l’empatia si manifesta davvero e pienamente. Il suo insistito spazzare con la scopa lo spazio vissuto rivela il punto di vista della logica e del buon senso, la necessità – umanissima, peraltro – di dare definizioni e di saper distinguere l’autunno dalla primavera, il bene dal male, la realtà da ciò che è illusorio. E non per niente Cio Cio San è infastidita e irritata da quello sguardo critico, che ha sempre bisogno di “pulire”, di rimuovere i segni della disillusione. Quello tra le due ragazze è comunque un rapporto privilegiato di profonda e disinteressata condivisione, e Puccini sembra suggerire che nessuno al mondo può capire le ragioni del cuore di una donna, come una donna. Alla stessa Kate, terzo personaggio femminile dell’opera, cui facilmente si potrebbe addossare la croce della rivale vittoriosa e quindi odiosa, il compositore affida una musica di toccante discrezione e dolenza, che offre ampio spazio di interpretazione ma non certamente il profilo della buona sorte. Anzi, sembra l’attacco di uno spin-off dal finale scontato.
Lo sguardo di Butterfly è del tutto diverso da quello di Suzuki, pur condividendo la stessa dimensione claustrofobica e di miseria. Non ha bisogno di definire né di distinguere alcunché. Lei sa. Lei sente dentro. Anche se tutto, intorno a loro, parla di privazione e perdita, di un autunno che sembra non dover finire mai, Cio Cio San non smette di sentire la primavera neanche per un momento. E se anche i fiori sono tutti appassiti, e le foglie non smettono di cadere, la sua volontà è ben più forte dell’evidenza: i fiori se li costruisce da sola, uno al giorno, uno dopo l’altro, con la tenacia anche un po’ ossessiva dell’azione meccanica che isola dal mondo e dagli altri, ma mantiene saldissimo l’ancoraggio del ponte col proprio cuore. E poco importa che quei fiori di loto siano di carta.
Tutto il mondo di Butterfly è fatto di carta, è nato sulla carta dei ritratti e dei disegni, ma non per questo – ai suoi occhi di artista – è meno vero. Magari non reale, o così parrebbe, ma certamente vero.
Una primavera di carta è anche quella riflessa nello spazio del giorno felice delle nozze: promessa fragile e inconsistente, ma non per lei, che con la carta crea e dà vita e consistenza a un mondo di natura che è alternativo a quello reale e crudo degli esseri umani (prima e dopo l’incontro con Pinkerton non fa differenza, sono parimenti desolanti), un luogo dove la vita si inaridisce e si devitalizza; uno spazio freddo che non sa come accogliere la poesia e la bellezza.
A ben vedere l’unica empatia possibile è proprio quella con la Natura. Le filosofie spirituali di matrice orientale coltivano da sempre un rapporto privilegiato con gli elementi naturali, che prendono parte alla vita degli uomini, condividendone passioni, emozioni e sentire, concetto che l’Occidente si è fatto strappare via, prima dal Cristianesimo e poi dal Rinascimento: ponendosi al centro del Creato, l’uomo, fattosi re e poi dio, si è condannato alla solitudine più devastante. Il virgiliano “sunt lacrimae rerum” – immagine consolatoria purtroppo persa dalla nostra cultura – diventa “il sentimento delle cose” della civiltà giapponese, ben vivo ancora oggi nel paese del Sol Levante.
Nell’ambito di questa ricerca di significato, di coerenza e di sintesi poetica, i costumi di Sara Marcucci dialogano con la scena richiamando a loro volta un Giappone popolare e dignitoso, a tratti dimesso, dalle cromie umbratili accese da improvvisi contrasti, come quello raccontato dalle immagini fotografiche di Felice Beato: un mondo impreparato all’incontro con l’Occidente, umile e poetico, permeato di fragile bellezza.
Lo spazio dell’azione, lungi dall’essere realistico (mi pare del tutto illusorio e fuorviante, oltre che ingenuo, immaginare di forzare l’opera, come genere, all’interno di un contesto che non sia simbolico), è pura proiezione dello spazio mentale della protagonista, riflesso delle sue emozioni e del suo sentire. Con le parole di Emanuele Genuizzi, che ha concepito la scenografia con Stefano Zullo, si tratta di “un’immagine dai tratti ingenui, quasi infantili, liberamente ispirata agli Ukiyo-e del periodo di transizione fra i due secoli – dove elementi occidentali si integrano ai codici espressivi del “mondo fluttuante”; questa sinossi illustrativa, forse la raffigurazione premonitoria di un destino già scritto, rappresenta il diaframma concreto che introduce lo spazio psicologico e astratto nel quale la scena si trasforma. L’ambientazione giapponese si svincola dalla necessità di una connotazione descrittiva per approdare su un piano metafisico e illusorio, caratterizzato da una superficie orizzontale continua e spoglia sulla quale scivolano, con rituale gestualità, delicati e fragili volumi geometrici, essenziali e nitidi, quasi immateriali, espressione di un ideale di purezza, ordine e armonia. Lo spazio è rarefatto e mutevole, il segno è quello di un Giappone asciugato da ambizioni filologiche o immagini folkloristiche ma riconoscibile nella sua matrice “archetipica”, ancorché inevitabilmente filtrata e interpretata da una lettura occidentale”.
La materia delicata e fragile della casetta di Cio Cio San è fatta perciò di frammenti di elementi pittorici primaverili nel primo atto (“la promessa”), che diventano rami ischeletriti e spogli nel secondo (“l’attesa”). Le foglie morte piovono su Butterfly come com-pianto della Natura: è un autunno (non un inverno!) che non ha fine, con tutto ciò che di malinconico. indefinito e transitorio c’è in un tempo sospeso, di passaggio. Niente di più penoso di un’attesa che non solo non si rassegna, ma che anzi rilancia, giorno dopo giorno, sulla “gelosa custodia” del seme fecondo della primavera, stagione soltanto “interrotta”, ma non cancellata. L’autunno porta in sé qualcosa di più doloroso dell’inverno stesso, perché se quest’ultimo precede la primavera, il lento e incessante “piccolo morire” delle foglie e della luce continua a portare in sé il ricordo estenuante e il sensuale profumo della bella stagione, che è avvertita sempre come recente, imprescindibile premessa.
L’empatia di Natura sfocia nello stupore incantato del “coro a bocca chiusa”, quasi una trenodia di elementi arborei, che si animano e fremono al punto da generare vibrazioni di compassionevole suono muto intorno alla protagonista, alla vigilia della sua fine.
E alla fine, in un mondo così concepito, non può che chiudersi il cerchio: Butterfly – esaurita la parabola dell’individualità fenomenica – non può che tornare nell’eterna ciclicità del Tutto, la sua carne facendosi subito lieve elemento di natura, foglia o petalo in volo, prima ancora che concime per la terra. È privilegio destinato alle anime fatte di pura poesia: la pioggia di petali di ciliegio che bagna la ri-nascita di Dolore è il vero, prezioso lascito di una madre che non concepisce altro che l’amore, che il dono di sé. Protetto e custodito in un silenzioso giardino di carta, quel figlio lo spettacolo non lo rivela fino alla fine, come si fa con le cose più preziose e intime, che si dischiudono soltanto quando la primavera sembra tornata per davvero.